“L’occupazione che vogliamo e la politica economica che comprendiamo”

Proponiamo una nuova riflessione dell’economista Angelo Mucci, questa volta sul tema del lavoro.

Viviamo in una società ormai in declino: il mercato del lavoro è instabile, le sicurezze sociali sono una chimera, le istituzioni proteggono i cittadini fino al punto da provvedere con i sussidi come il basic income, il reddito base o di sussistenza, per moderare le disuguaglianze. Spiegare tuttavia le ragioni di un simile fenomeno così complesso, in cui si innestano le instabilità sociali ed economiche nazionali e mondiali, sembrerebbe materia per soli addetti. Forse per politici, coadiuvati dai loro tecnici. Ma non è così. E tramite queste poche righe vorrei provare a descrivere cosa si può intendere, a consuntivo, della politica economica regionale. La politica ha come principale compito quello di assicurare welfare, sanità, sicurezza, occupazione, benessere collettivo. La piena occupazione ad esempio, la circostanza per cui la domanda di lavoro è in pareggio con l’offerta di lavoro, richiede che la politica si adoperi affinché il numero di disoccupati sia costantemente inferiore al numero dei posti vacanti.

Questo perché i processi di aggiustamento dei salari nominali, specie quando vi è un eccesso di offerta o di domanda sul mercato del lavoro, richiedono sempre che il tasso di variazione dei prezzi sia pari alla differenza tra il tasso di variazione dei salari ed il tasso di variazione della produttività media del lavoro e che, contemporaneamente, questa variazione dei prezzi sia adeguata ad una crescita costante del PIL. Il limite opposto si avrebbe invece quando un mercato è in equilibrio sul mercato del lavoro, ovvero quando il tasso di inflazione è nullo. Ed è tra due questi confini che la seguente analisi vuole porsi.

In una economia keynesiana il processo di inflazione funziona se il tasso di disoccupazione è inferiore al minimo ovvero proprio quando è negativa la crescita dei salari. Se questo fosse il tasso di disoccupazione ottimale, ciò che vorremo, rispetto al tasso di inflazione ex ante, potremo allora concludere che oggi l’Italia, persino tutta l’Europa, rappresentano il miglior mercato mondiale del lavoro. Un tasso di occupazione ottimale, bassi salari, un processo di inflazione stabile o nullo. Quindi la politica, specie in campagna elettorale, starebbe mentendo, approfittandosi di una naturale inconsapevolezza dei cittadini sui dati e gli obiettivi economici. Sui risultati e sulle reali condizioni della Regione, insomma. E’ bene allora riassumere qualche numero che ci conforti. Un rapido sguardo ai dati ed ecco che la disoccupazione in Italia è del 9.8% (2019), dell’8.9% nelle Marche, con un tasso di occupazione della Regione superiore rispetto a quello nazionale (Marche 65,8% – Italia 58,4%); salari medi nel Centro Italia pari a circa 29.000 euro lordi annui contro le retribuzioni medie lorde annue percepite nelle Marche pari a 19.422 euro: calcolatrice alla mano, è un risultato inferiore sia rispetto al valore delle altre regioni del Centro sia rispetto a quello medio nazionale (fonti: CIGL Marche, JP Salary Outlook, Statistica Regione Marche I trimestre 2020). Potremo concludere allora che le Marche sono proprio una regione keynesiana (!), un modello nazionale di politica economica. Quindi, che questo tasso di disoccupazione attuale implicherebbe uno specifico risvolto inflazionistico che la politica deve senz’altro considerare e, in un certo modo, che gli attuali salari dovranno necessariamente crescere. Che allora la Regione Marche avrebbe garantito in passato una certa proporzionalità tra interesse, rendimento del capitale investito, la variazione dei salari e la disoccupazione. Che la politica regionale avrebbe garantito sicurezza sociale, mediante la tutela della rigidità dei prezzi, ed avrebbe persino aumentato il rischio sistemico nell’economia del territorio: un modello di sana e buona spesa pubblica. Eppure da quanto risulta dalla lettura dei dati macroeconomici del Paese e della nostra Regione non è affatto così.

La politica fiscale nazionale ha infatti diminuito le imposte dirette a favore di quelle sulle transazioni come l’IVA, cosa che in effetti è avvenuta nel 2013. Ciò ha consentito di aumentare i trasferimenti delle entrate dallo Stato alle Regioni, tanto che dal 2001 al 2017 i trasferimenti di risorse (pari al 63% del totale) sono raddoppiati, mentre la spesa storica è diminuita considerevolmente (di circa il 30%). Una maggiore IVA e maggiori importazioni avrebbero dovuto far superare, come atteso, qualsiasi limite nel lungo periodo dal lato dell’offerta, tanto nell’economia finanziaria quanto in quella reale. Quindi avrebbero avuto come obiettivo strategico quello di consentire maggiori investimenti privati e maggiore competizione di mercato. La perfetta elasticità dell’inflazione – un fenomeno peraltro europeo – avrebbe infine consentito maggior competizione, fino a paventare l’uguaglianza del costo marginale con i prezzi. Questa perfetta competizione è stata tuttavia frenata. Il check up delle Marche di Prometeia (curato dal professor Pietro Alessandrini dell’Università di Ancona) dimostra che, numeri alla mano, le Marche hanno avuto – dal 2007 e presumibilmente fino al 2024 – una bassa produttività e bassissimi investimenti.

Mentre oltre un miliardo di opere pubbliche previste per il post terremoto, con soldi stanziati e che non sarebbero stati ancora impiegati, non avrebbero – algebricamente – una copertura effettiva. Nel 2019 infatti le Marche hanno registrato un saldo positivo di quasi 100 milioni di euro (entrate 577 mln, uscite 480 mln): una sana gestione, sì, ma per le casse della Regione, non dei cittadini. Infatti se è vero che tutto quanto sin qui detto dipenderebbe dalle politiche nazionali – in buona sostanza anche condivisibili – la Regione non ha avuto la lungimiranza di comprendere che eventuali cambiamenti dei prezzi o delle tasse sono dal punto di vista economico del tutto equivalenti, che la perfetta competizione si ha quando l’inflazione è alta e che, così come il reddito di cittadinanza, la sostituzione delle utilità dal privato al pubblico genera ulteriori effetti nelle risorse pubbliche, come appunto un ulteriore aumento dell’inflazione.

Quando una amministrazione pubblica come la Regione ha un saldo attivo, infatti, si registra sempre più inflazione del reale, mentre le tasse incassate avrebbero un valore ridotto – in termini di utilità attesa, numeraria – a causa dell’inelasticità dell’offerta o della domanda. Questo fenomeno è noto anche come “visibilità delle tasse”, un effetto comportamentale del cittadino con le imposte. Qualsiasi massaia comprenderebbe, nell’intreccio dei dati e dei ragionamenti economici, che la Regione Marche ha imposto ai cittadini ulteriori imposte ma non come siamo soliti intenderle. Inflazione come una tassa ad valorem, tanto da penalizzare la domanda interna che dipenderebbe soltanto dai prezzi. Ci aspettiamo allora questa crescita dei salari tanto attesa, un aumento sensibile dei prezzi, data l’inflazione reale attuale e, magari, una crescita dei profitti delle imprese.

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